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Saperi umanistici e saperi scientifici?

Pubblicato il: 04/05/2011 14:36:38 -


L’analisi del rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica (chi ricorda un saggio di P.Snow degli anni Settanta?) non è (non può essere) esercizio “neutrale”. È, al contrario, necessariamente situato e condotto sull’analisi determinata del “modello culturale” espresso da una formazione sociale.
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Due recenti interventi su queste pagine – Maurizio Tiriticco che commenta il libro della Nussbaum “Non per profitto, in difesa dell’umanesimo” e Vittoria Gallina “Un professore di matematica che si diletta di filosofia” che ricorda Enriques – ripropongono, con accenti e approcci diversi (e fors’anche divergenti) la questione del rapporto tra sapere scientifico e sapere “umanistico” nella cultura nazionale. Da un lato (Tiriticco, “via” Nussbaum) ripropone la cultura umanistica come “deposito” insostituibile di sapere critico, capace di sviluppare una consapevolezza generale e critica del “mondo”, anche a correzione di una asserita egemonia del sapere scientifico e tecnico nella “predicazione” europea; dall’altro (Vittoria Gallina, “via” Enriques) una riflessione sui motivi del non essere “scientifico e laico” della cultura nazionale. Sotto traccia (e neppure tanto sotto) rispetto a tali questioni sta quella relativa all’impianto culturale del nostro sistema scolastico per come si è sviluppato e modificato storicamente e per quanto scaturisca dai numerosi tentativi di riformarlo, per contingenti o epocali che si (auto) configurino. Vorrei proporre una riflessione che, per quanto consentito dallo spazio disponibile in questa sede, riprenda alla radice tale confronto, nel tentativo di salvaguardarne la ricchezza ma anche di disambiguarne alcuni contenuti. Procedo per affermazioni necessariamente assertive e apodittiche che richiederebbero invece altrettante specificazioni critiche. Ma ci penseranno i lettori.


GERARCHIE CULTURALI E FORMAZIONE SOCIALE

L’analisi del rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica (chi ricorda un saggio di P.Snow degli anni Settanta?) non è (non può essere) esercizio “neutrale”. È, al contrario, necessariamente situato e condotto sull’analisi determinata del “modello culturale” espresso da una formazione sociale. Tanto più nel nostro caso: il “modello culturale” nazionale è “marcato” da specifici paradigmi e gerarchie, che provengono dalla nostra storia e che proprio il nostro sistema di istruzione, specie superiore, ha riprodotto nel tempo costituendo gerarchie e scale di valori che si mantengono con i caratteri della “lunga durata”. Si legga: ”il Vacca vuol fare intendere che di matematica conosco poco; ed in ciò egli ha errato dove forse non immagina: io non ne conosco poco, ma pochissimo; la mia ignoranza della matematica è molto più grande che il Vacca non sospetti…. La matematica, non possedendo né verità storica (…) né verità filosofica, non è scienza ma strumento e costruzione pratica…”. L’autore di queste parole (una confessione “insopportabilmente arrogante” se si guarda alla premessa “ne so pochissimo” rispetto alla conclusione (“ma…non è scienza”) è Benedetto Croce in una polemica con il matematico Giovanni Vacca, assistente di Peano, nel corso della medesima polemica che contrappose i filosofi dell’idealismo nazionale ai matematici italiani dell’epoca, da Enriques, a Volterra, a Lombardo Radice, Severi, Levi Civita, allo stesso Peano, tutti di assoluta rilevanza e notorietà internazionale, alla quale si riferisce l’articolo di Vittoria Gallina. Del resto Croce aveva pubblicato, nel 1905, il libro “Logica come scienza del concetto puro” nel quale negava ogni valore di verità alla scienza, fatta per “gli ingegni minuti” (l’espressione di Croce qui riprende, nei medesimi termini – gli scienziati sono ingegni piccoli – una di Vico; Ma tra Vico e Croce passa una gran parte dello sviluppo del pensiero scientifico della modernità). Croce e Gentile diedero alla cultura italiana, alla sua organizzazione e riproduzione, sopratutto attraverso l’istruzione superiore, un’impronta che assunse carattere “istituzionale” e dunque una “potenza” di caratterizzazione storica che ancora oggi portiamo in eredità. Il carattere di “gerarchia” che viene introdotto nel rapporto tra i “due saperi” non solo è enfatizzato, ma viene “codificato” istituzionalmente attraverso l’impianto culturale della scuola e dell’istruzione superiore del nostro Paese. Dunque attraverso i meccanismi di riproduzione delle élites sociali. Per tutto ciò, comprendendo e valorizzando le ragioni della Nussbaum, come le preoccupazioni di Tiriticco, non possiamo non guardare con elevata soglia critica a ogni affermazione relativa alla cultura umanistica come “riserva e deposito” esclusivi di sapere critico, se le rapportiamo, nella determinatezza dell’analisi, alla realtà della cultura nazionale e della scuola che la riproduce. E ancor più alla permanente e sostanziale sotto-ordinazione delle discipline scientifiche nei curriculi della nostra scuola. (Anche nelle cosiddette riforme epocali). Nel corso di una recentissima attività ispettiva mi sono imbattuto in un interessantissimo materiale che una brava docente di matematica di un liceo scientifico di Napoli ha predisposto per un modulo didattico sulle geometrie non euclidee per la classe quinta. Mi sono congratulato con lei. C’è qualche assennata argomentazione che possa dimostrare che si promuove pensiero critico per esempio più con la lettura di quei passi del Menone (Menone, 16,22) nei quali Socrate “dimostra” (dimostrazione palesemente falsa) che anche il servo conosce le regole del quadrato, piuttosto che nel misurarsi con la “falsificazione” del V postulato di Euclide? Certo può succedere che non si faccia né l’una né l’altra cosa. Ma evidentemente in tal caso si tratta di altro problema. Ancora: se studiassimo la composizione della “classe politica” italiana per tipo di formazione scolastica sarebbe evidente la dominanza della “formazione umanistica”. Ma del rapporto tra ciò e l’esercizio di pensiero critico e di valori sociali da parte della medesima classe politica il tacere è bello… Nei miei corsi alla scuola superiore di Pubblica Amministrazione, tra i dirigenti pubblici coinvolti mi è sempre capitato di essere l’unico ad avere formazione scientifica. Ogni cortocircuito causa-effetto tra la formazione dei dirigenti pubblici e il funzionamento della Pubblica Amministrazione è ovviamente indebito… Ma quanto meno pone dubbi falsificanti circa le tesi della superiorità critica della formazione umanistica. In ogni caso “dimostra”, con i numeri, la persistenza del paradigma crociano-gentiliano nella formazione delle élites sociali e del suo riprodursi nella nostra storia nazionale.

UNO SGUARDO ALLE RADICI

Aristotele (mi si perdoni la citazione) afferma che “tutti gli uomini, per natura, tendono al sapere”. Tutti gli uomini (“hoi anthrôpoi”, uomini, donne, Greci e barbari, liberi e schiavi). Nessuno escluso. (Metafisica I,1). Ciò che caratterizza “l’uomo”, è il “logos”. Per Aristotele l’uomo è un “animale dotato di parola (‘zôion logon ekhon’)” La Scolastica medioevale ha tradotto “animale razionale” identificando “logos” con “ratio”. Ma Aristotele dice “zôion”: l’anima che sta nella radice della nostra parola “animale” non c’entra, anzi è fonte di equivoci. E anche il termine logos ha qui un significato diverso, e più ricco, di quello di “ragione”. Si potrebbe meglio dire, parafrasando Aristotele, che l’uomo è un animale “simbolico” o meglio, l’uomo è un animale “semantico”, significante. Il che va ben oltre alla “razionalità”. L’esercizio squisitamente umano è l’assegnazione di significati. Del resto così anche nella Bibbia: Dio chiama l’uomo perché “dia il nome” alle cose del creato. (Genesi 2,19-20). Ma, in questa accezione, il logos è carico di “ambiguità” e indeterminatezza. Inoltre sempre Aristotele afferma che “L’uomo per natura è un animale politico (‘politikon zôion’)” (Politica, I, 2). Ed è in questa dimensione “politica”, sociale, collettiva che si mette in gioco l’indeterminatezza, l’ambiguità, l’incertezza del logos. Già in Socrate era presente la consapevolezza della “duplicità” del logos (Cratilo), la sua “irresolubilità”. Se infatti assumiamo il significato di logos che vada oltre alla sua traduzione di ratio, appare evidente che il carattere essenziale dell’uomo (“zôion logon”) di essere animale simbolico-semantico-significante (dunque non solo “razionale”) non possa che esprimersi in uno spazio collettivo e “finalizzato” allo scambio di significati (e delle “incertezze” che esso comporta) ed alla “mediazione” che li promuove: la città, appunto, la “politica”. Nell’affermazione della “universalità” del valore del sapere, qualche dubbio anche Aristotele lo ha avuto. Davvero il sapere è valore per tutti gli uomini (“hoi anthrôpoi”)? E gli schiavi, i barbari, le donne? Ma anche il grande filosofo era “figlio del suo tempo”. Per Aristotele alcuni uomini hanno condizione di schiavi perché non sanno governarsi da sé. Hanno il logos, ma solo nella misura che consente di “comprendere gli ordini”, ma non nella misura necessaria e sufficiente per darne. Per le donne vale la stessa considerazione: salvo eccezioni sono “meno adatte a comandare”. (Politica, I). Analogo l’argomento che riguarda l’eccezione dei “barbari” (i non greci). Hanno natura “servile” visto che sono governati da tiranni. Per “giustificare” le eccezioni contraddittorie alla sua enunciata antropologia universale, Aristotele utilizza cioè il parametro del comando e del potere. E sulla soglia della connessione tra valore universale del sapere e “critica del potere” il filosofo si ferma. Ma almeno apre una prospettiva della quale vi è traccia nelle affermazioni del punto precedente. Non amo le generalizzazioni così spinte, ma mi si perdonerà, dato lo spazio a disposizione dell’argomentazione, se propongo di leggere la storia dei secoli successivi con la chiave di lettura costituita dallo sforzo permanente di superare l’ambiguità e l’incertezza del logos e della affermazione del valore universale del sapere. Lungo due direttrici: la politica e lo sviluppo del pensiero scientifico. Nella dinamica dei rapporti della città, nella definizione delle regole, delle decisioni collettive, il logos si esprime innanzi tutto come “doxa”. La politica diventa perciò il modo in cui si stabiliscono le decisioni sulle regole della città attraverso l’esercizio del logos e il superamento della sua indeterminatezza attraverso la mediazione collettiva. La democrazia è questo esercizio collettivo, faticoso, impegnativo di superare l’ambiguità del logos e di pervenire alla decisione collettiva. “…La più adatta a distinguere i propositi di più alta utilità è la maggioranza (dell’Assemblea) dopo che su di essi ha seguito il dibattito (ascoltati gli oratori)…” (Tucidide, IV, 39). Così Tucidide esalta la democrazia ateniese e la “regola” della polis che la fa essere una costruzione sociale ben diversa dall’oligarchia e dalla tirannide. Sappiamo che, sia la regola della maggioranza che quel “uditi gli oratori”, costituiscono i nuclei di una “critica storico-politica” che ha occupato i secoli successivi e l’oggi. La maggioranza può essere infatti lo strumento per condannare Socrate o per decidere il supplizio di Gesù. E quel “sentiti gli oratori”, che costituisce esercizio critico e di costruzione di consapevolezza, riletto nella società della comunicazione mediatica e della passivizzazione televisiva palesa clamorosamente il carattere intrinsecamente incerto della “mediazione” del rapporto tra verità e “doxa”, tra consapevolezza e manipolazione, e lo scarto tra esercizio del logos e ricerca della verità. Analoga la tensione verso il superamento dell’incertezza del logos e della sua disambiguazione si misura nella storia del pensiero scientifico. Dai tentativi di pervenire alla formalizzazione certa dei linguaggi (la logica) alla ipotesi della “assiomatizzazione totale“ di Hilbert, passando per Leibniz e Cartesio. Ma anche in tal caso un percorso tutt’altro che rettilineo e conclusivo: dall’esito paradossale del sillogismo della “consequentia mirabilis”, a Goedel e la “indecidibilità” dei sistemi, alla meccanica quantistica e al principio di indeterminazione. Anche nel caso del pensiero scientifico, dunque un esercizio faticoso, incerto, impegnativo, permanentemente falsificabile. Il senso di queste rapsodiche notazioni è costituito dalla affermazione che la divisione tra “cultura umanistica” e “cultura scientifica” è in realtà un “sedimento storico-specifico” ed è in tale dimensione che ne va recuperato il senso. Ma se è così non ha invece senso connettere all’uno piuttosto che all’altro il valore di “strumento critico” in un ipotetico modello formativo. È probabilmente tempo – e con urgenza – di “grattare” tale sedimento e di liberarsene. Soprattutto in relazione al “modello culturale nazionale”. La “cultura dei classici” ha avuto, storicamente, una funzione sociale organica (cioè è stata “motrice funzionale” dello sviluppo economico-sociale reale) in una lunga fase storica che va dal secolo XI, a tutto il Rinascimento. È stato lo strumento del recupero dei “fossili” del sapere greco e soprattutto del sapere scientifico del mondo ellenistico, dopo la notte calata con la distruzione della biblioteca di Alessandria (391 d.C. per mano cristiana) o, giusto per dare un termine, con il martirio di Ipazia (415 d.C. sempre per mano cristiana). Attraverso lo studio e la traduzione dei classici furono fatte riemergere conoscenze perdute che si tradussero in sviluppo sociale ed economico: dalla matematica e la geometria, alla architettura, alla navigazione, all’astronomia, alla medicina, alla regolazione del territorio e delle acque, alla meccanica e all’ottica, tali conoscenze perdute furono messe a disposizione dello sviluppo sociale. Il Rinascimento italiano è alimentato da tale “riscoperta scientifica” dovuta alla cultura dei classici. Ci incantiamo di fronte ai dipinti di Piero della Francesca. Ma spesso dimentichiamo, o non sappiamo, della importanza del suo trattato sulla geometria che gli consentì di (ri)scoprire le leggi della prospettiva. Piero non avrebbe potuto scriverlo senza il “recupero dei fossili” del sapere scientifico greco-ellenistico effettuato attraverso le “discipline umanistiche” Io spero che vi siano docenti capaci di insegnare a “guardare” Piero e contemporaneamente al suo trattato di geometria. Succede naturalmente, anche in tale caso, che non si faccia né l’una né l’altra cosa. Ma questo è sempre un altro discorso. Per contro un esempio “capovolto”: la circolazione del sangue era già stata descritta da Galeno (secolo III), ma egli sosteneva che fosse diretta dal “centro alla periferia”. Il suo testo, in compendio, è stato utilizzato fino a tutto il secolo XVI, grazie proprio alla sua traduzione operata attraverso la “cultura dei classici”. E, in quanto “classico”, fece testo non ostante mille prove che la circolazione non fosse solamente centrifuga. (basterebbe osservare il rigonfiamento che si forma con un laccio emostatico posto su un arto: esperienza comune anche nei secoli passati). Ma occorre arrivare a Cesalpino (1593) perché tale osservazione empirica potesse “sconfiggere” il sapere codificato e riscoperto dai classici. (poi il tutto fu “sistemato” da Harvey nel 1628 che dimostrò la doppia circolazione). Onore a Galeno, a Cesalpino, ad Harvey. Ma è grazie a tale scambio critico e all’apporto di “umanesimo” e “scienza” che fu scritto un capitolo fondamentale della Fisiologia. Tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo il rapporto tra sapere umanistico e sapere scientifico si irrigidisce e muta “funzionalità”, diventa “separazione”. In particolare disegnando una diversa “paideia”. La cultura dei classici, perdendo la funzione sociale organica citata, viene utilizzata come strumento per la formazione delle classi dirigenti politiche e amministrative. Alimenta le “discipline del comando” (e, rispetto ai classici, la filosofia, la storia, la retorica oscurano il pensiero scientifico.). Si veda, per risparmiare argomentazioni, la Ratio Studiorum dei collegi dei Gesuiti cui fu affidata la formazione di tali classi dirigenti. Il sapere tornava a connettersi con i parametri selettivi del potere e del comando, privilegiando le discipline del “discorso” (la capacità di dare ordini e quella più limitata di comprenderli, per usare le parole citate di Aristotele), non con quelli dello sviluppo sociale. Ma ciò costituisce una “mortificazione selettiva” dello stesso sapere umanistico che ne risulta deformato e privato della sua essenziale componente scientifica (la cultura nazionale porta il segno evidente di tale deformazione). Occorre arrivare all’Illuminismo e all’ Enciclopedia per ritrovare l’affermazione dell’universalità del sapere e la valorizzazione universale del sapere scientifico. Nella separatezza tra i due saperi, al potenziamento dello sviluppo del pensiero scientifico e alla connessione organica tra scienza e sviluppo economico e sociale, pensarono invece gli stati nazionali, con iniziative “finalizzate” e selettive. Colbert fonda l’Accademia delle scienze francese nel 1666. (tra le prime “prestazioni” la misurazione del raggio della Terra, con una precisione che si avvicina a quella del calcolo effettuato da Eratostene circa 1300 anni prima). Negli stessi anni fu fondata la Royal Society, che, in stile anglosassone, non fu “statale” ma partorita dalla società civile e autofinanziata; nel 1700 Berlino diede vita a un organismo analogo; nel 1724 ciò fu fatto a Pietroburgo. Forse nella considerazione che il CNR italiano fu fondato solo nel 1919 è riassunto emblematicamente il carattere specifico che nel nostro paese ha avuto il rapporto/separazione/conflitto tra sapere umanistico e sapere scientifico. Il suo primo presidente, il matematico Vito Volterra fu uno di quelli più bersagliati dalla “polemica antiscientifica” di Croce e fu poi emarginato dal regime fascista. (Tacciamo, per carità di Patria, delle caratteristiche del suo attuale vice presidente). Sul nesso specifico tra formazione umanistica e formazione delle classi dirigenti italiane, con contemporaneo isolamento della formazione scientifica rimando alle analisi di Gramsci ne “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”.

UNA DIVERSA PAIDEIA

Ma alla fine di questo rapidissimo excursus una cosa mi pare certa: per noi, per la nostra scuola, il compito fondamentale è riscrivere una nuova “paideia” che superi e faccia giustizia della contrapposizione tra saperi umanistici e scientifici. Di quella contrapposizione specifica che sta nel nostro retaggio culturale. Restituendo senso ai primi, mortificati dal loro stesso “uso sociale“ tradizionale di meccanismo di riproduzione delle élites e superando il “pesante giogo” culturale che Croce e Gentile caricarono sul potenziale sviluppo della scienza italiana. E ciò è essenziale sia per quello che si trova come sedimento nel nostro passato, sia per ciò che la postmodernità ci propone e che stravolge sia i saperi umanistici che quelli scientifici. Non possiamo consolarci ripercorrendo la supposta “densità” critica dei primi né accettare la supposta egemonia “economica” dei secondi, a fronte di alcune caratteristiche della fase storica che stiamo attraversando. Bastino due accenni. Parte consistente della “ambiguità” del logos che prelude all’approccio critico sul piano della cultura civile è stata “sequestrata” implementandola sulla strumentazione tecnologica della informazione/formazione di massa. L’argomentazione, la dialettica, il “sentiti gli oratori, l’assemblea decide a maggioranza” (Tucidide) che dà nutrimento alla deliberazione delle regole della città è minacciosamente codificata nel circuito nazionale e internazionale della produzione dell’informazione e veicolata mediaticamente agli individui isolati, non all’assemblea. In parallelo la dialettica della “società giusta” che si sviluppava storicamente in prossimità della potestà deliberativa, della comunità, degli interessi e dei principi espressi collettivamente si è ricodificata slittando semanticamente in quella dei “diritti umani”, astrattamente codificati e relativi agli individui, lontani dunque dalle loro appartenenze di interessi e idee, e lontani dalle concrete possibilità deliberative. Da qui anche le reazioni localistiche e ristrette, frustrate dalla lontananza deliberativa e dalla astrazione delle definizioni. Sul fronte del sapere scientifico viviamo un processo analogo: parti consistenti di esso sono state trasferite su circuiti integrati e microchip che ci esentano dall’esercizio paziente, faticoso e incerto del logos e ce lo restituiscono disambiguato in automatico, codificato e conformizzato, sia in parole che in calcoli. Potenzialmente sottratto alla falsificazione. Il valore universale del sapere che ha alimentato gran parte del “mito pedagogico” da Socrate a Comenius ci viene riproposto sotto forma di valore di scambio (questo sono le “competenze”) con il conforto dell’imprimatur europeo. Né le preziose indicazioni della Nussbaum, né le suggestioni relative ai “nativi digitali” che pure ci coinvolgono in interessanti dibattiti, sono esaustive per ridefinire una nuova paideia unificata che pure si presenta, a noi “popolo della scuola” come ineludibile compito storico. Facciamoci coraggio.

Franco De Anna

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